Pubblicato di recente il manuale teorico e pratico con i risultati dello studio sulla terapia della bambola empatica destinata alle persone affette da declino cognitivo
Dopo le criticità vissute nelle case per anziani durante l’emergenza pandemica, tornano d’attualità iniziative innovative sviluppate negli ultimi anni soprattutto a favore dei residenti colpiti da un declino o disturbo cognitivo. Progetti che permettono di concentrarsi sempre più sulla persona in quanto tale – sulla sua essenza, il suo vissuto, i suoi bisogni relazionali – per favorire un accompagnamento individualizzato e creativo. Un simile approccio terapeutico necessita comunque nella pratica di linee guida avvalorate da riferimenti teorici. Grazie ad uno studio sulla terapia della bambola empatica condotto da Rita Pezzati, professoressa dell’invecchiamento alla SUPSI, è ora disponibile un manuale che, oltre a presentare i risultati della ricerca, fornisce elementi essenziali per comprendere il comportamento delle persone affette da demenza, il potenziale di questa ed altre terapie non farmacologiche come pure i principi degli studi internazionali che le sostengono. Un manuale destinato a tutti gli interessati, professionisti della cura e familiari in primis.
Sono stati proprio i caregiver professionali e familiari coinvolti in questa esperienza, estesa nel complesso a 26 case per anziani del Ticino sull’arco di tre anni, a chiedere alle autrici – con Rita Pezzati si firmano Valentina Molteni, Roberta Ballabio, Laura Ceppi e Roberta Vaccaro – di scrivere l’articolato volume in modo da disporre di una base che garantisca continuità e coerenza alle loro azioni. Azioni volte ad accompagnare le persone affette da demenza nella ricerca quotidiana di benessere e qualità di vita, riducendo in primo luogo gli stati ansiosi legati alla perdita delle capacità cognitive. Il Manuale di metodologia per le terapie non farmacologiche con le persone affette da demenza. L’esempio concreto della terapia della bambola empatica (Editore Maggioli) è una delle prime pubblicazioni nel suo genere, come rileva anche la dottoressa Anna De Benedetti, presidente della Commissione cantonale per l’implementazione della strategia sulle demenze, che ne firma la prefazione.
La dottoressa De Benedetti, dopo aver seguito lo studio sin dalle prime fasi nel 2016, ribadisce ad «Azione» l’importanza di questo volume nell’ambito della Strategia cantonale sulle demenze approvata dal Consiglio di Stato proprio quattro anni or sono. «Il Cantone persegue una strategia diversificata che punta ad accrescere le competenze scientifiche per la messa in atto di metodi e approcci incentrati sul miglioramento della qualità di vita. Uno degli obiettivi di questa ricerca è stato proprio quello di misurare la qualità di vita, concetto difficilmente proponibile fin verso la fine del secolo scorso». «Dal nostro punto di vista – prosegue la rappresentante del Dipartimento della sanità e della socialità – è importante che dagli interventi empirici legati alle pratiche quotidiane si possano estrapolare procedure standardizzate riproducibili nel tempo, sia nel contesto familiare, sia da parte degli operatori sociosanitari».
Fra le diverse e positive esperienze presenti sul territorio in questo ambito (Gentlecare, Montessori e altre) quella legata alla bambola empatica è assurta per prima a progetto di ricerca. Nata per iniziativa di una psicoterapeuta svedese che negli anni Novanta tentò con questo mezzo di stimolare il figlio autistico ad esprimere le proprie emozioni, la bambola ha precise caratteristiche: occhi grandi, sguardo laterale per non far sentire sotto giudizio l’osservatore, bocca chiusa con sorriso accennato, materiale morbido, peso diverso a seconda delle parti. Lo studio è stato condotto su basi scientifiche. Criteri di ammissione validati, procedure di applicazione, valutazione dell’efficacia dell’intervento sono alcuni degli elementi che l’hanno caratterizzato. L’obiettivo di questa terapia non farmacologica è di portare benessere non solo alla persona affetta da demenza, ma pure alla sua cerchia familiare e a quella dei curanti professionisti, creando un circolo virtuoso.
La responsabile del progetto evidenzia come in questa ed altre terapie non farmacologiche il focus non sia più la malattia, bensì la persona. Precisa Rita Pezzati: «Attraverso queste terapie si cercano nuove modalità per creare una relazione fra la persona affetta da un declino cognitivo e chi la cura. L’esperienza di vita della prima è drammaticamente trasformata dalla malattia, più precisamente la persona non è più in grado di mobilizzare la parte cognitiva del cervello per dare significato agli eventi. Resta però attiva la parte emozionale sulla quale si fa leva (ad esempio tramite la bambola empatica) per accompagnarla rendendola il più serena possibile. In questo senso si sposta l’asse dal concetto di autonomia a quello del senso della vita. La persona diventa sempre più se stessa nell’essenzialità; la sua identità è come una filigrana che si coglie nelle attività relazionali».
Nello specifico la bambola – appropriata sia per il genere femminile che per quello maschile ma non necessariamente per tutte le persone affette da demenza – attraverso la stimolazione sensoriale induce gesti nei quali la persona si ritrova. «Non bisogna pensare che tutti la coccolino», aggiunge la nostra interlocutrice. «Le reazioni alla bambola sono molto diverse e riflettono il vissuto personale. C’è chi la veste, chi la sgrida, chi semplicemente la posa in fondo al letto e la tiene d’occhio. In quest’ultimo caso i curanti pensavano che ciò denotasse una totale mancanza di interesse nei suoi confronti, mentre grazie al ricordo dei figli si è capito che la donna da giovane, essendo sempre occupata nelle attività agricole, lasciava molta indipendenza ai suoi bambini senza però perderli di vista. Questo esempio dimostra come non ci debbano essere aspettative da parte dei curanti e sia indispensabile superare i concetti di giusto e sbagliato. La bambola permette di ritrovare il senso profondo di se stessi, ribaltando anche i ruoli di curante e curato». Nei casi in cui la terapia con la bambola empatica funziona, quest’ultima viene consegnata una mezz’ora prima dell’insorgere del comportamento disturbante, attitudine che tende a ripetersi e dunque prevedibile. Lo scopo di queste terapie, già evidenziato da entrambe le intervistate, è infatti quello di ridurre le paure delle persone colpite da un deterioramento cognitivo per migliorare il loro benessere. Diminuire frequenza e portata degli stati ansiosi significa di conseguenza poter ridurre le terapie farmacologiche utilizzate per contenere tali disagi.
Le precedenti considerazioni riportano in primo piano la questione metodologica, la cui acquisizione è legata alla cultura scientifica a monte delle terapie non farmacologiche. Questa definizione in negativo non deve infatti indurre a identificarle con la mancanza di carattere scientifico. Una cultura scientifica e un metodo condivisi hanno, fra gli altri, il vantaggio di costituire un linguaggio comune tra operatori diversi per formazione ma implicati nella cura della medesima persona. In quest’ottica tutti sono stimolati a capire che applicando un metodo si possono ottenere risultati migliori.
Il manuale di metodologia per le terapie non farmacologiche, frutto di una collaborazione transfrontaliera fra più istituti, è una preziosa guida in questa direzione. Anna De Benedetti sottolinea come in questo settore gli aspetti metodologici costituiscano piuttosto una sorta di fil rouge, perché acquisirli e soprattutto mantenerli nel tempo non è un’evidenza. «Non si può dare nulla per scontato e bisogna puntare – attraverso però puntuali fasi di conoscenza, valutazione e monitoraggio – a individuare il metodo che in quel preciso momento offre il meglio a quella determinata persona. Dunque, flessibilità e personalizzazione sono le caratteristiche di una presa a carico più rispettosa dell’essere profondo di chi è affetto da declino cognitivo, ma dovrebbero sempre essere accompagnate dal rigore e dallo standard propri delle teorie scientifiche. Un rigore che infonde sicurezza ai caregiver e alla fine genera benessere.
Questa prima ampia ricerca riveste infine un ruolo precursore per gli studi su altre forme di terapia non farmacologica, alcuni dei quali peraltro già in corso. Il coinvolgimento degli operatori sociosanitari nei quali si è cercato di suscitare curiosità e confronto – rilevano in conclusione le nostre interlocutrici – rappresenta una solida base sulla quale costruire una visione della presa a carico delle persone affette da demenza che oltrepassi il concetto di assistenza.