La rubrica «Dietro le parole del contagio» di Carlo Silini, si presenta qui sotto forma di dizionario minimo della pandemia: una lettera al giorno, una riflessione al giorno sul coronavirus e quello che le gira attorno
Lettera “Z”: ZERO
(28 aprile) ZERO Tre, due, uno… zero. Superati i picchi di pandemia è partito il viaggio di ritorno verso normalità. Ritorno è una parola grossa. Normalità pure. In realtà “c’è un solo viaggio possibile – scriveva Andrej Tarkovskij- quello che facciamo nel nostro mondo interiore. Non credo che si possa viaggiare di più nel nostro pianeta, così come non credo che si viaggi per tornare. L’uomo non può tornare mai allo stesso punto da cui è partito, perché, nel frattempo, lui stesso è cambiato”. E noi, siamo davvero cambiati?
Ci siamo resi conto che questo intermezzo era l’occasione per azzerare le assurdità che ci avevano accompagnato fino a prima del virus?
L’avremmo volentieri evitata, la pandemia: ci ha spaventato, ci ha ferito. Ma ci ha anche costretti a riconsiderare le follie della “vecchia” normalità: una vita col fiato grosso, il piede sull’acceleratore, lontano dagli affetti e dai ritmi della natura. Se il coronavirus sarà “solo” una parentesi nelle nostre vite, uno spauracchio da dimenticare il più in fretta possibile, allora i morti, i contagiati, le misure di contenzione e la strada percorsa in salita non saranno serviti a nulla. Se ci ha permesso di fare un viaggio interiore, allora sì, ci cambierà in meglio. Lettera “V”: VECCHI
(27 aprile) Hai poco più di 65 anni, la pelle tonica (con o senza creme anti-age), magari spezzi ancora le mele con le mani e sei convinto di vivere una seconda giovinezza. Poi arriva un virus e un decreto governativo ti spiega che sei vecchio, perciò vai protetto dal contagio e dalla tua vulnerabilità. Negozi chiusi, per te che fino a ieri tiravi grandi i nipoti e risolvevi i problemi dei figli. Quant’è approssimativa questa malattia che infila nello stesso sacco i neopensionati pimpanti e i più fragili fra i novantenni.
Quant’è approssimativa questa malattia che infila nello stesso sacco i neopensionati pimpanti e i più fragili fra i novantenni
Ma dopo una certa età al virus non interessa come ti senti. E allora eccoli cementati in casa tutti e quanti gli umani dai sessantacinque ai cent’anni. I primi increduli, i secondi rassegnati. Due mondi diversi, un’unica dottrina: guai se vi fate vedere in giro. Il coronavirus ha le sue ragioni e anche i senior devono metabolizzarne la logica, non più indigesta di quella della “spagnola” che cent’anni fa aveva scelto i giovani per le fasce a rischio. Sacrosante, allora, le misure protettive calibrate sugli anziani. Ma comprensibili pure i loro scoramenti. I veterani del gruppo temono di andarsene senza un abbraccio, i neopensionati scoprono che il coronavirus è come il mondo giovanilista e produttivo: non perdona lentezze, capelli bianchi e nemmeno le prime rughe.
Lettera “U”: UTOPIA
(26 aprile) Siamo una società distopica. La pandemia ci ha trascinati nella sceneggiatura di un film post-apocalittico, uno di quei racconti disperati di un mondo caduto nel caos dopo una catastrofe atomica, un attacco alieno o un virus finito fuori controllo, appunto. Non possiamo neppure aggrapparci alle utopie. Ci abbiamo messo un secolo per distruggerle. Ed è successo nel peggiore dei modi, affogandole nel sangue delle guerre e delle rivoluzioni. Tolte le ideologie, restano le religioni e ben vengano se ci aiutano ad uscire dal tunnel. Ma in generale ci è rimasta una fede laica dal respiro corto: la mitologia del libero mercato e degli appetiti dei singoli che – sciolti da ogni vincolo – facendo i propri interessi migliorerebbero le condizioni esistenziali di tutti.
Il PIL della felicità non si misura in dollari e non è il conto in banca a salvarti dal contagio, ma la solidarietà e la generosità dei tuoi simil
Un sogno allettante, ma bugiardo: dietro il successo di uno c’è spesso la sconfitta di molti. E soprattutto appiattito sull’orizzonte della materia, incapace di riconoscere valore a dimensioni della vita più profonde e non monetizzabili. Il PIL della felicità non si misura in dollari e non è il conto in banca a salvarti dal contagio, ma la solidarietà e la generosità dei tuoi simili. Siamo noi l’utopia, siamo noi il vaccino che ci farà uscire dalla crisi. Non ci serve un mondo nuovo, neppure se fosse davvero il regno dei soldi o l’Eden del progresso tecnico-scientifico. Ci serve un uomo nuovo capace di rendere il mondo ferito un autentico paradiso.
Lettera “T”: TEODICEA
(25 aprile)Il mondo precipita in una crisi globale e riparte la caccia a un responsabile ultraterreno delle nostre magagne. “Dov’è Dio? Dove si nasconde?” si chiedono in molti. Tecnicamente è un problema irrisolvibile che si chiama “teodicea” e potremmo esprimere in questi termini:
com’è possibile che un Essere supremo che si presume pieno d’amore permetta a un virus (o a un qualsiasi altro male, poniamo un terremoto o uno tsunami) di sterminare così tanti innocenti?
Opzione A: se lo permette è ingiusto o indifferente alla nostra sorte e quindi non vale la pena di credergli. Opzione B: succede perché non esiste nessun Dio. Opzione C: il dolore di chi non ha colpe è un mistero più grande di noi ma non mette in discussione né l’esistenza di Dio né la sua bontà, perché l’Essere supremo potrebbe permettere il male per ottenere un bene maggiore che non siamo in grado di vedere. Proviamo rispetto per queste reazioni ragionate, tutte e tre drammatiche, di fronte alla sofferenza priva di senso. Siamo meno concilianti con gli opportunismi spirituali. Quelli di chi, finché stava bene non ha mai ritenuto di dover perder tempo con l’ipotesi che ci sia un dio e ora lo invoca perché venga a salvarlo. O, al contrario, ne nega l’esistenza semplicemente perché non lo fa.
Lettera “S”: SCIENZA
(24 aprile) Chinate la testa, ecco la regina che ha strappato la corona al virus. La scienza esce ingigantita dalla pandemia. Non solo perché è in prima fila, con l’instancabile fronte medico, nella battaglia contro la malattia. Ma perché solo lei sarà in grado di trovare un vaccino, l’unica soluzione sicura e definitiva per debellare l’epidemia. In lei l’umanità pone le speranze ultime e quasi messianiche per uscire dalla crisi. Non ce ne siamo accorti subito, ma nella vita pubblica stiamo seguendo come cagnolini un antico principio filosofico positivista: spetta alla scienza fornire l’autentica base razionale all’agire umano. I doppiopetti del potere politico si inchinano ai camici del potere ospedaliero.
Nella vita pubblica stiamo seguendo come cagnolini un antico principio filosofico positivista: spetta alla scienza fornire l’autentica base razionale dell’agire umano.
Chi non lo fa per convinzione, dovrebbe farlo per convenienza perché in genere i morti non votano. Resta da capire fino a quando sarà auspicabile vivere in regime medico. La scienza resta l’autorità più alta nel campo della salute ma, primo: non detiene la verità, come dimostrano le spaccature su vari aspetti della crisi, quindi non va divinizzata. Secondo: il suo compito non è governare il mondo, ma fornire conoscenze e strumenti affidabili per governarlo bene. È troppo chiedere politici all’altezza dei medici che abbiamo visto lottare in corsia?
Lettera “R”: RESISTENZA
(23 aprile) La pandemia è una gara di resistenza. I più chic la chiamano resilienza, che potremmo tradurre come la capacità di attraversare il male traendo il meglio da noi stessi. Ma in realtà la maggior parte di noi né si sta fortificando, né si sta santificando: cerca solo di restare nella camicia di forza senza dare di matto. Costretti al ritiro, proviamo a consolarci fantasticando sul vantaggio che il virus può rappresentare per gli umani in cattività: l’occasione di un balzo quantico di coscienza che inaugurerà tempi di pace ed armonia globale.
Poi vedi un ottuagenario tra gli scomparti del supermercato e niente, schiumi di rabbia perdendo in un attimo il contegno zen
Quando tutto sarà finito, gli squali torneranno ad essere squali (più affamati di prima, per giunta) e le persone per bene continueranno ad essere gli amabili individui che erano prima di questo pasticcio. Persino le persone più portate alla saggezza non gireranno in strada con l’aria del pensatore di Rodin. Avremo tutti un infinito bisogno di leggerezza e di futilità. È umano e giusto, ma stiamoci attenti: esaurite le scorte di resistenza alla compressione, il balzo collettivo rischia di essere nell’oblio, non nella consapevolezza.
Lettera “Q”: QUARANTENA
(22 aprile) Ci siamo finiti tutti, prima o poi, in quarantena. All’inizio è toccato solo a chi aveva scoperto che un parente o un collega si era preso il virus sparendo dalla sua presenza a colpi di tosse. “Aiuto! L’ho visto, l’ho toccato, mi ha toccato”. La contiguità col malato condannava automaticamente alla reclusione. Ma quando il virus era troppo diffuso per pensare di bloccarlo tenendo in casa amici e congiunti dei contagiati, la quarantena è diventato il modus vivendi automatico per tutti. Una quarantena di lusso, ad essere sinceri, con cibo, tecnologie e beni di conforto a profusione. Ma anche di miseria esistenziale. Quarantena significa che il male è fra di noi, forse dentro di noi anche se non ce ne accorgiamo.
C’è una categoria di persone, durante la pandemia, incolpevolmente temibile: gli asintomatici. Un bacio e zac, ti inguaiano. Peggio di Giuda.
Non c’è simmetria tra il male e il bene. Pensate che bello se oltre agli asintomatici infettivi esistessero gli immuni al virus capaci di diffondere la salvezza con la stessa procedura. Ecco un sogno rosa per i giorni più neri: il vaccino nelle labbra, l’amore che cura e trionfa, come quando da bambini la mamma medicava le nostre ferite baciandole.
Lettera “P”: PAURA
(21 aprile) Di cosa si ha paura, col coronavirus? La risposta più nobile è: che muoia una persona cara. La più onesta: che sia io a morire (e a morire solo). La più vera: che si rompa il telefonino. In tempo di contagio, se sei capace di stare chiuso in casa e di rispettare le norme quando esci, puoi stare abbastanza tranquillo. Fatte salve le prime due paure, a spaventarci – più della malattia che colpisce se vai a prendertela, più dell’assenza di contatti per la distanza sociale, più dei timori per un domani pieno di incognite – è la compagnia di noi stessi. «Tutta l’infelicità dell’uomo deriva dalla sua incapacità di starsene nella sua stanza da solo», scriveva Blaise Pascal.
Oggi il nuovo miglior amico dell’uomo non è il cane, ma lo smartphone, il tablet
Ben prima della crisi, in molte famiglie e in numerose coppie ognuno se ne stava tra i fatti suoi davanti allo schermo del telefonino. Vivere una quarantena senza SMS, senza notifiche, senza qualcosa di elettronico che ti vibra addosso ricordandoti che esisti: ecco l’ultima versione dell’angoscia per molti di noi. Benvenga la tecnologia che favorisce i contatti tra i lontani – nipoti e nonni, anzitutto – ma che tristezza quando separa da chi ti sta vicino.
Lettera “O”: OZIO
(20 aprile) – Chissà se dopo la crisi del coronavirus verrà rivalutata una dimensione dell’esistenza che la società contemporanea disprezza più delle malattie: l’ozio. Nel 1932 Bertrand Russell scriveva un memorabile «elogio dell’ozio» nel quale proponeva che si lavorasse per un massimo di quattro ore al giorno per dedicare il resto del tempo ad attività più interessanti e sensate, come pensare, socializzare, vivere senza sentirsi stritolati dalle incombenze lavorative. Il ritmo delle nostre esistenze è esagerato. «L’impossibilità di sentirci felici nelle piccole cose, di pensare e di contemplare, ci ha resi voraci (…) così la nostra società malata di accelerazione al cospetto del coronavirus si è trovata costretta a fermarsi di colpo», scriveva giorni fa su Libero Steno Sari.
In quarantena forzata, l’ozio può farci capire che dobbiamo rallentare la macchina produttiva perché il suo carburante, la benzina che brucia nel motore, è il meglio della nostra vita
Ci sono cose che contano più del soldo o della carriera: un’amaca e un libro, per esempio. Ascoltar musica, giocare coi figli, scrivere un diario, dipingere, pregare, dare il tempo a un input di diventare un’idea. L’amore in tutte le sue declinazioni, soprattutto.
Lettera “N”: NATURA
(19 aprile) – Può anche darsi che la natura abbia deciso di rendere pan per focaccia rovesciandoci addosso il coronavirus per rappresaglia. Abbiamo voluto vendere prelibati pipistrelli nei «wet market» cinesi, i mercati dove si spaccia carne cruda? E adesso ci prendiamo il virus che dai chirotteri è passato ai pangolini e dai pangolini agli umani. Gli ecologisti radicali esultano ricordandoci che la pandemia è il modo in cui l’universo ci dice che siamo in troppi e il virus è l’anticorpo da esso creato per preservare gli equilibri del pianeta (uccidendoci, s’intende). Una versione laica e verde shocking del castigo divino per i nostri peccati.
Di pecche, nei confronti delle risorse del pianeta, noi umani ne abbiamo fin troppe, ma non ci pare il caso di immolarci al virus per permettere alla Terra di vendicarsi della nostra pochezza
È un nuovo panteismo che tende a dimenticare che la natura, oltre a regalarci ciò che serve per vivere felici, produce disequilibri e malattie non per giustizia, ma per sovrana indifferenza. Sia chiaro che di pecche, nei confronti delle risorse del pianeta, noi umani ne abbiamo fin troppe, ma non ci pare il caso di immolarci al virus per permettere alla Terra di vendicarsi della nostra pochezza. Difendiamoci. Magari tornando alle gioie della natura, immergendoci nel verde di un bosco o di un giardino per riempirci di ossigeno e caricarci di energia. Per sopravvivere, non per sparire.
Lettera “M”: MASCHERINA
(17 aprile) – La mascherina è uno dei pochi argomenti su cui può vacillare la fiducia nelle istituzioni, per tutto il resto convinta e indiscussa. Chi ha ragione? I sostenitori del «serve solo ai malati e al personale medico» (ai primi per non infettare, ai secondi per non essere infettati) o i fautori del «devono metterla tutti», come successo in certi Paesi asiatici, parrebbe con esiti lodevoli? Mistero. Così ognuno si è organizzato da sé, assecondando l’ipocondria o la spavalderia, a seconda del carattere e del grado di terrore personale. Utile o inutile che sia, resta un oggetto che – sul piano simbolico – rappresenta il passaggio a tinte forti dalle gioie più o meno sfrenate del prima, alla contenzione mortificante del dopo.
Utile o inutile che sia, resta un oggetto che – sul piano simbolico – rappresenta il passaggio a tinte forti dalle gioie più o meno sfrenate del prima, alla contenzione mortificante del dopo
Non possiamo scordare che nei giorni che hanno preceduto i primi casi conclamati di coronavirus in Ticino, tutta Bellinzona ballava e cantava al ritmo delle Guggen e al suono dei petardi. Non è insensato pensare che, come in ogni evento di massa, il contagio sia circolato invisibile anche tra i carri di cartapesta. Niente, più del passaggio dalle maschere carnascialesche a quelle igieniche, rappresenta il dramma della leggerezza perduta nei giorni tra il Carnevale e la Quaresima.
Lettera “L”: LAVORO
(16 aprile) – L’accesso al lavoro ridisegna la scala dei valori di un mondo in stato d’allerta. Lavorano le categorie professionali indispensabili per sopravvivere: personale medico per curare, braccianti e contadini per il cibo, impiegati nei negozi con beni di prima necessità per riempire i frigoriferi, governanti, poliziotti, docenti, giornalisti e pochi altri. Il resto del mondo sta a casa. La vita di una cassiera, oggi, vale più di quella di un manager nell’industria del lusso. Chi lavora, poi, si divide in due categorie: al fronte e in retrovia. Al fronte rischi il contagio, in retrovia la noia, almeno per chi è costretto al lavoro ridotto e scalpita per tornare in campo (o perché di stare in casa non ha nessuna voglia). Ma il telelavoro ne esce alla grande. A parte rare eccezioni, dà ottimi risultati. Speriamo bastino a distruggere l’ideologia del controllo e della sorveglianza di troppi datori di lavoro.
Ma il telelavoro ne esce alla grande. A parte rare eccezioni, dà ottimi risultati. Speriamo bastino a distruggere l’ideologia del controllo e della sorveglianza di troppi datori di lavoro
Sarebbe una benedizione economica ed ecologica. Come osserva il sociologo americano Alvin Toffler, non c’è nulla di più improduttivo che spostare ogni mattina milioni di persone verso zone di lavoro per poi rispostarle ogni sera verso il loro domicilio.
Lettera “I”: INDULGENZA
(15 aprile) – Non era il medioevo di ritorno. La concessione dell’indulgenza plenaria (cioè della remissione di tutti i peccati) in una Piazza San Pietro vuota e battuta dalla pioggia lo scorso 27 marzo non è stata una riproposizione in salsa contemporanea dell’antico potere della Chiesa sul mondo. Non si è trattato di un anacronistico e interessato scambio di favori: il Paradiso in cambio di denaro, come avvenne in passato, scatenando la santa indignazione di Lutero. Nella figura bianca del Papa, solo in mezzo al catino immenso del colonnato del Bernini, c’era lo sgomento di tutta l’umanità investita dalla pandemia. Francesco non era «semplicemente» il Papa della Chiesa cattolica, era l’incarnazione di tutti gli esseri umani soli davanti alla malattia e alla morte.
Nella figura bianca del Papa, solo in mezzo al catino immenso del colonnato del Bernini, c’era lo sgomento di tutta l’umanità investita dalla pandemia
Sotto la pioggia nera è come se nella sua persona l’umanità si lavasse dal morbo, si purificasse in vista di un domani – per chi crede: di un Paradiso – dove non conta in quale dio credi o hai creduto, ma che tipo di uomo sei stato, sei o sei diventato dopo il coronavirus. Nella crisi globale sanitaria, quel gesto ci ha ricordato che, vada come vada, COVID non può e non deve uccidere la nostra anima.
Lettera “H”: HUMOR
(14 aprile) – Perso per perso, scherziamoci su. Perfino il coronavirus può indurre quel misterioso solletico interiore capace di partire inaspettato e diventare una piccola gioia, maligna o benigna. Aprite i social: le battute sulla pandemia sovrabbondano. «Buongiorno mammina, un’altra bella giornata tutti insieme», dice la bimba. «Da sparasse», risponde la mamma. Oppure: «Coronavirus: approdato in Africa il primo gommone di migranti lombardi». Sorridiamo per esorcizzare la fifa. O per trarre qualche vantaggio dalla situazione grama. Ci sono studenti che quando vanno in videoconferenza per una lezione aprono il microfono e trasmettono interferenze sonore precedentemente registrate sul web. Vogliono far credere ai docenti che il collegamento non funzioni inducendoli a interrompere l’ora di tele-insegnamento. Più divertenti sono i guizzi autoironici.
Agente, non lo vede che ho già un piede nella fossa? Mi lasci andare dove mi pare
L’altro giorno, dopo essere stata fermata in auto dalla polizia, un’anziana a cui veniva chiesto cosa facesse in giro sul SUV ha reagito sorniona: «Agente, non lo vede che ho già un piede nella fossa? Mi lasci andare dove mi pare». Le risate più sincere, però, sono quelle cristalline dei bambini: nascono nel limbo invidiabile dell’inconsapevolezza. Solo lì dentro brilla gioia vera.
Lettera “G”: GUANTI
(13 aprile) – La cosa brutta dei guanti ultrasottili che i negozi impongono durante la spesa è che ti pare di essere in sala operatoria anche quando valuti l’azione sulle fragole. Esci e li togli strappandoli dalle mani sudaticce senza sapere dove farli sparire. Se hai acquistato la confezione di zwieback toccata poco prima da un cliente infetto, ora sono i guanti ad essere contaminati. Chi ci preserverà dal preservativo? Fatto sta che dopo settimane in cui li infilavamo e li toglievamo con religioso zelo, son venuti a dirci che lavarsi spesso le mani è molto più sicuro.
I guanti ci ricordano che, di fronte al virus, anche gli individui più prestanti sono fragili vasi di coccio
Tuttavia restano l’icona della crisi. Non solo perché, nell’immaginario emergenziale, ci proteggono dal virus degli altri e proteggono gli altri dal nostro, ma perché sono il simbolo di un atteggiamento psicologico salubre ed elegante: la cura di se stessi. Sembra che l’espressione “Trattare coi guanti bianchi” sia nata in Francia alla fine dell’Ottocento e facesse riferimento a quelli usati per la lucidatura dell’argenteria e lo spolvero di cristalli e porcellane. I guanti ci ricordano che, di fronte al virus, anche gli individui più prestanti sono fragili vasi di coccio da maneggiare con infinita delicatezza. Figurarsi i più deboli.
Lettera “F”: FINESTRA
(12 aprile) – A meno che non viva dentro un bunker – possibilità che pare assai remota – chi non ha un balcone ha almeno una finestra, un rettangolo vuoto tagliato nel muro per fissare l’universo. Vero che anche da lì puoi comunicare con gli altri, ma la finestra è meno “social” del balcone, l’affaccio sul mondo circostante è più timido, più intimo. Resta però un varco prezioso tra il dentro e il fuori, un luogo eternamente adolescenziale, la superficie trasparente dove appoggi la fronte per fantasticare sulla vita vera che c’è o ci sarà al di là del vetro. È l’alternativa edilizia alle finestre elettroniche (non a caso esiste Windows), ai “Black mirror”, gli specchi neri dei computer, dei tablet e naturalmente dei telefonini che vibrano in tasca.
E così le finestre più vere aperte dal coronavirus sono quelle interiori: si affacciano sul mondo vertiginoso dei pensieri e dei sentimenti
Ti affacci alla finestra o ti metti dietro il vetro e per chi ti vede dalla strada sei un’icona su uno schermo dentro una casa. Ma il passante che ti osserva mentre ciondoli fra le tende non può cliccare per entrarti dentro, come si fa con le App. E così le finestre più vere aperte dal coronavirus sono quelle interiori: si affacciano sul mondo vertiginoso dei pensieri e dei sentimenti che ci abitano e bussano dentro di noi chiedendoci di uscire a prender aria, perché l’aria è vita.
Lettera “E”: ECOLOGIA
(11 aprile) – Visto che tutto è partito dalla Cina, assieme al virus prendiamoci anche un po’ di saggezza orientale. Per esempio, rispolveriamo i concetti taoisti dello yin (nero) e dello yang (bianco). In Occidente abbiamo tradotto la coesistenza dei due principi con una frase da Baci Perugina: «C’è un po’ di bene nel male e c’è un po’ di male nel bene». In realtà yin e yang non sono concetti morali, ma polarità energetiche. A noi interessa l’idea che nel mare scuro del coronavirus si possa scorgere qualche luce di speranza. L’interruzione forzata di buona parte delle attività umane ha ridotto in tempi brevissimi le concentrazioni di inquinamento nell’aria, come attestano diverse foto satellitari che passeranno alla storia. Come dire che la malattia ci costringe all’ecologia.
L’interruzione forzata di buona parte delle attività umane ha ridotto in tempi brevissimi le concentrazioni di inquinamento nell’aria
Quindi sì: c’è un po’ di bene nel male. Sarebbe bello pensare che, quando la pandemia sarà passata, nel mondo nuovo che verrà riusciremo a portare l’aria fresca e i cieli tersi di questa stagione ammorbata. Nell’altalena energetica dello yin e dello yang, dopo aver visto il giorno tramutarsi in notte aspettiamo che la notte si tramuti in un giorno migliore di prima.
Lettera “D”: DISTANZA
(10 aprile) – Nei giorni del contagio anche gli individui più refrattari alle manifestazioni fisiche d’affetto lamentavano la mancanza di baci e abbracci. Benvenuti fra gli umani. Tenersi la mano, stringere un corpo, accarezzare, dare o ricevere un tocco leggero sul gomito o sulla guancia non sono mollezze sdolcinate né semplici possibilità amichevoli o amorose, sono la strada più breve tra noi e la felicità. Ci voleva il virus per capire che siamo animali tattili, che la nostra tranquillità, la nostra forza, il nostro equilibrio nascono dal toccare altri esseri come noi e dall’essere da loro toccati?
Accarezzare, dare o ricevere un tocco leggero sul gomito o sulla guancia non sono mollezze sdolcinate né semplici possibilità amichevoli o amorose, sono la strada più breve tra noi e la felicità
Non è un elogio alla materia, o peggio all’aggressione e al possesso (quelli sono abusi di tatto), è pura magia: è il modo in cui le creature fisiche trasmettono e ricevono energia. Ci è stato detto di imparare ad abbracciarci con gli occhi. Buona idea. Nel frattempo, non dimentichiamo un paradosso, messo in luce da un’acuta sociologa. Col coronavirus molti di noi hanno sperimentato che si può essere moralmente vicini – agli anziani, per esempio – pur essendo fisicamente distanti. A volte, prima della crisi, succedeva il contrario: eri fisicamente vicino alle persone, ma restavi lontanissimo da loro. Perché la distanza è soprattutto un fatto mentale.
Lettera “C”: CONFINI
(9 aprile) – Non ci fossero le ramine, le sbarre bianche e rosse che salgono e scendono davanti alle auto, le dogane e le guardie col mitra, che resterebbe dei confini? Linee immaginarie tracciate sulla carta geografica cento o duecento anni fa alla fine di dispute, sangue e guerre, le barriere che dividono i Paesi segnano il recinto dentro il quale siamo “noi” e fuori da quale cominciano “loro”. In regime di pandemia molti hanno chiesto di blindare i confini, lasciando ogni Paese alle prese coi guai di casa propria, virus compreso, senza esporsi a contagi dall’esterno: ognuno per sé e Dio per tutti.
È razzismo camuffato da autodifesa. In realtà siamo tutti confinati, senza distinzione di razza o di passaporto.
Ma se sbarri i cancelli al frontaliere allora devi essere pronto a lasciar fuori anche il medico e l’infermiere comasco che ti salva la pelle se prendi la bestiaccia. Ognuno sembra l’untore esterno di qualcun altro: i cinesi lo sono stati dei lombardi, i lombardi degli italiani, gli italiani dei ticinesi e i ticinesi del resto degli svizzeri. È razzismo camuffato da autodifesa. In realtà siamo tutti confinati, senza distinzione di razza o di passaporto. La nostra personale dogana inizia e finisce coi muri di casa e se pensiamo di cavarcela da soli, siamo già morti.
Lettera “B”: BALCONE
(8 aprile) – Si sporge sul mondo contaminato senza toccarlo. In queste settimane il balcone è diventato la stanza più ambita della casa, invidiata da chi non ce l’ha, il luogo sicuro sospeso sopra l’incertezza del contagio. Un passo avanti e sei nel cielo, uno indietro e sei in salotto. Non è che non si possa uscire di casa, è che quando lo fai cammini guardingo, non devi toccare, non vuoi essere toccato. Il balcone è spazio protetto, ti puoi rilassare, ci fumi, ci leggi, mediti, prendi il sole. Un luogo d’aria.
Bellissimi sono i vecchi al balcone, gli occhi pieni di luce quando i bambini, da sotto, mandano baci.
Ma anche una piccola piazza, un “social” popolare e non virtuale dove la connessione con gli altri è a vista, a udito, a olfatto. Da un balcone all’altro parli col vicino di casa o di appartamento, mentre una voce da dentro ti chiama perché il risotto è pronto. Bellissimi sono i vecchi al balcone, gli occhi pieni di luce quando i bambini, da sotto, mandano baci. O quando calano un cesto per raccogliere la spesa fatta dai figli o dagli amici, come in certi mercati nei vicoli delle città del Sud. Luoghi di contemplazione e poesia, anche: da lì vedi le nuvole spostarsi nel vento, le osservi mentre si accendono prima che il sole scompaia, ricordandoci che il mondo non è così brutto come sembra.
Lettera “A”: ALLARME
(7 aprile) – Siamo arrivati ultimi, ma ce l’abbiamo fatta: ora sappiamo cosa vuol dire vivere in allarme. La nostra sprovvedutezza, l’incredulità, perfino l’assurda ostinazione a non considerarci una specie a rischio è il prezzo che paghiamo alla fortuna di essere cresciuti in una finestra spazio-temporale senza la minaccia di una guerra. O di una pandemia. Siamo in allarme, quindi. Come la stragrande maggioranza dei nostri antenati e come buona parte dei popoli contemporanei in guerra o devastati da altre calamità. Popoli accanto ai quali abbiamo vissuto con la presunzione che fosse normale toccasse a loro. Invece è successo a noi.
Oggi siamo tutti un po’ più uguali: potremmo chiamarla democrazia della paura
Così, oggi, siamo tutti un po’ più uguali. Potremmo chiamarla democrazia della paura. La parola “allarme” ci dice che siamo aggrediti: difendiamoci, corriamo all’arme! Ma quali armi? Finché non spunta un vaccino continueremo ad aver paura di abbracciarci per timore di farci del male. Nel kit di sopravvivenza al virus mettiamo fin d’ora una precondizione civica: niente voto ai politici che da domani, quando si tratterà di finanziare la sicurezza dell’umanità, sprecheranno miliardi per comprare missili e bombe. Le uniche armi che possono salvarci vengono dai laboratori della ricerca medica, non dalle fabbriche di morte.